ACQUARIUS RACCONTI LIQUIDI CON PANNA

Racconti, poesie, pensieri, prosodie, ricordi e anche immagini, video, musica. Liquidi come possono essere i sogni, la memoria, lo svolgersi dei pensieri, la realtà che sfugge a definizioni e limiti. Con panna perchè è bello essere golosi. Di tutto.

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Wednesday, June 27, 2007


CARTE DA GIOCO


Si era accorto di aver dimenticato il portafoglio a casa e viaggiava sul treno della metropolitana: a quell’ora del mattino, affollata e densa di umori sgradevoli. Sembrava di trovarsi dentro a un proiettile lanciato lungo il dedalo di gallerie, come canne di fucile nere e fumose. Il rumore entrava assordante nel vagone, dai finestrini segnati e sozzi aperti fino al limite opposto dalla barra di sicurezza. Erano saliti alla terza fermata dal capolinea una banda di zingari che si erano messi a suonare all’impazzata una composizione musicale ripetitiva del tipo Quoyannisquatsi, di Philip Glass, quel film con i binari colorate e le macchine che corrono veloci lasciando solo tracce e scie luminose sullo schermo. Le persone stivate li dentro, chi a leggere il giornale pencolante nel vuoto, chi a guardare nel nulla dei finestrini bui, avevano avuto un sussulto, insieme alle oscillazioni del treno e avevano girato la testa per guardarli:tutti giovani con la fisarmonica, i violini, la chitarra e un rudimentale amplificatore portato sulle spalle di uno di loro dentro uno zaino.
Ottiero voleva premiarli. Per una volta la musica aveva fatto emergere espressioni di leggera e rotonda curiosità nelle facce congestionate e chiuse dei passeggeri. Lo aveva fatto vibrare di una sottile e struggente malinconia, emozione davvero rara in quella dimensione di caustico fastidio e rassegnazione in cui si trovava. I quattro ragazzi suonavano in quel vagone squallido come un gruppo di musici alla testa di un corteo scomposto di marionette appese ai tubi di sostegno della carrozza. Qualcuno tamburellava contro quei tubi seguendo il ritmo. Ottiero si era dimenticato persino di quella che stava per succedergli. I ragazzi fermarono gli strumenti e riattaccarono con un motivo di sottofondo monocorde e il più basso cominciò a girare con un bicchiere di carta stropicciato, tendendolo verso le persone, senza dire nulla e ricevendo molte monete. Molte più monete del solito, per quella musica che avevano offerto con passione. Fu allora che Ottiero cercò il portafoglio nella tasca e non lo trovò. Il ragazzino rimase a guardarlo con un sorriso di pochi denti e gengive rosa, come a dirgli non te l’ho preso io, io non c’entro. E per un momento i loro sguardi si persero in quel pensiero. Ottiero che fruga nella memoria alla ricerca di un indizio, di dove potesse averlo lasciato. Il ragazzino che aspetta. Poi si ricordò di averlo visto l’ultima volta sul tavolo all’entrata di casa. “ Mi dispiace, non ho soldi..” “ Si si, non hai soldi…nemmeno una moneta?” “ Nemmeno una, è vero..” Ma il ragazzo non sembrò credergli, gli girò le spalle ed uscì veloce dal vagone. Ottiero ripiombò nello scalpitante rumore del treno ricordandosi che quel giorno stava andando in tribunale per divorziare. Era senza documenti, senza soldi, senza lavoro e stava per divorziare. Aveva dato le dimissioni dall’ufficio vendite di prodotti finanziari presso il quale lavorava da 15 anni e quel giorno il giudice gli avrebbe consegnato la sua copia dell’istanza di divorzio consensuale. Amava ancora Sofia, con la quale aveva diviso la passione per le scorribande al mare, le bevute con gli amici e le interminabili partite a carte.
Quando Sofia usciva da scuola, lo aspettava in un bar vicino all’ufficio di Ottiero e mangiavano insieme di gusto, porgendo bocconi, in un fiume di chiacchiere,tesi uno verso l’altro. A un certo punto lei aveva cominciato a non aver più voglia di niente. Lo trascinava a letto in lunghe sessioni amorose che finivano sempre con un forte senso di frustrazione e un mutismo ostinato di lei. La guardava timidamente da sotto le palpebre e scorgeva occhiate ostili e dolorose. Non c’era nessun altro, glielo aveva giurato. Era sopraggiunto un nulla ghiacciato che aveva corroso tutto come una ruggine ostinata e lei non aveva spiegazioni., voleva solo …levare le tende.. Diceva proprio così, come quando, dopo una serata con gli amici decideva che era il momento di tornare a casa. “Leviamo le tende? Ottiero stava andando da lei quella mattina. Finse per un attimo di avere una sorta di appuntamento con Sofia .. non la vedeva da qualche mese, viveva da Bice la sua migliore amica. Le avrebbe lasciato tutto. La casa, il servizio di bicchierini da vodka di cristallo, souvenir del viaggio a Praga, i racchettoni. Non avrebbe mai sopportato di continuare a vedere quelle carte da gioco abbandonate sulla libreria.
Sofia era seduta sulle panche del corridoio dell’aula giudiziaria. Non era solo lo squallore dell’androne sudicio a mettergli addosso una specie di brivido febbrile. Sofia sembrava rifiorita, con quel vestito estivo, rosa pallido e i capelli più corti e più chiari. Aveva l’aria più giovane, soave, delicata. Giocherellava con la borsa, e ogni tanto rispondeva a un tizio, l’avvocato probabilmente, seduto con le gambe accavallate e la cartella sulle ginocchia vicino a lei. Gli sembrò una estranea, qualcuno cui dare del lei, facendo precedere anche una qualche forma di cortesia come per esempio, mi scusi.. Ebbe anche paura di lei. D’un tratto Sofia era una raffinata signora dal profumo di fiori e il sorriso appena accennato sulle labbra dipinte di rosa. E lui un uomo misero e un tantino sporco, così sudato e impacciato, coi vestiti scuri in una giornata di estate e i calzini bucati nelle scarpe dal tacco consumato.
Oh Sofia, ciao, stai bene…
Ciao Ottiero, si bene, anche tu..
Si
Allora
Ah è arrivato il giudice, possiamo entrare.
Arrivò anche l’ avvocato di Ottiero.
Il giudice lesse la documentazione ad alta voce. Dovevano essere le ragioni della separazione pensò, quella sfilza di termini burocratici, che a un certo punto definivano lui stesso e Sofia, gli attori lì convenuti. Ma non riuscì a concentrarsi, nelle orecchie cominciò a risuonargli ancora quella musica della metropolitana. Attori. Si sarebbe alzato volentieri per ballare, attori, ma si trattenne sperando che lei, alla fine, guardandolo finalmente negli occhi ,con quella espressione complice e arzilla che lui conosceva bene , gli proponesse di levare le tende e andare a mangiare qualcosa là, al loro solito bar, trascinandolo per il gomito come due amanti segreti.
Se i signori si vogliono accomodare per la firma
Il giudice li fece avvicinare.
A Ottiero stava succedendo la stessa cosa di quando morì suo padre.
A 20 anni, durante il funerale, incapace di accettare quel fatto, si mise in mente che il padre sarebbe uscito dalla bara da un momento all’altro e seguitò a fissare la cassa, aspettando. Stava aspettando anche li, in quell’aula, che Sofia gli dicesse che non se ne faceva niente. Leviamo le tende e andiamo a casa. Fissava la nuca di Sofia che non lo degnava di uno sguardo e poi spostava gli occhi sul giudice.
Dopo pochi minuti però Ottiero prese la penna e firmò, attese che Sofia finisse gli svolazzi sulle carte: firmava sempre con esagerazione, e mise il suo cognome su tutte le copie, mentre il giudice “terminava la partitura” con vari timbri grandi e piccoli, dai suoni secchi o tuonanti , che sembravano gong e piatti di una orchestra spoglia. Si diedero la mano tutti, composti e legnosi. Sofia non aveva voluto nulla.
La casa l’avrebbero venduta con calma, non appena Ottiero si fosse sistemato con un nuovo lavoro. Nessun oggetto aveva destato il suo desiderio. Era distaccata e generosa. Non preoccuparti per me, non ho bisogno di nulla, e non saprei dove collo- care, come dire le cose, qualsiasi cosa. Magari quando avrò una nuova casa. Ma sai voglio rinnovarmi , tieni pure tutto,ti serve. Ecco, qualche libro, qualche cd di musica, ma più avanti. Non c’è fretta per questo. Stai bene Ottiero, prenditi cura di te.
Ottiero era risentito da quell’indifferenza per le cose materiali. Ogni gesto di Sofia era il quieto annullamento della vita passata insieme. Nessuna suppellettile, ricordo, palpabile traccia del passato avrebbe varcato quella sbarra abbassata ,senza la minima esitazione. Gli sembrava di avere, come un ridicolo e grottesco zaino da montagna gigantesco sulle spalle, tutta quella casa, che avevano messo insieme percorrendo chilometri di negozi e fiere e sfogliando pubblicità di occasioni strepitose, scorazzando felici con le scatole di librerie da montare e l’idea di costruire un opera d’arte. Ma non riuscì a dirle non lasciarmi solo con tutta questa roba, prenditi almeno la tua parte della nostra storia. Voleva ferirla. Disse la cosa più misera che gli uscì come un eco cavernosa. Le cose costano, pensaci. Sofia lo aveva guardato per un momento con tenera compassione. Ma certo, grazie Ottiero. Ci sentiamo. E si era voltata verso l’avvocato che le offriva un passaggio.

Il portafoglio non era sul tavolo all’entrata dell’appartamento. Ottiero cercò ovunque, preso da una frenesia violenta. Non può essere che me lo abbia rubato il ragazzo in metropolitana continuava a ripetere. Non può essere. Non può essere. Tra le carte della scrivania, in bagno, nell’armadio. Si dirigeva come un robot telecomandato cambiando direzione a caso buttando all’aria le stanze con irosa disperazione. Ad ogni oggetto spostato corrispondeva una fitta allo stomaco e la crescente consapevolezza che non gliene importava nulla. Gli bruciava dentro un furore demolitore che non apparteneva al suo carattere mite e rinunciatario. Eppure, eppure, forse me lo ha sfilato mentre osservavo gli altri suonare, magari il ragazzino basso si è intrufolato approfittando della distrazione. Fingeva di riflettere e invece affastellava pensieri e immagini senza alcuno appiglio logico. Ecco, l’avrò lasciato in ufficio si disse. La sua maledetta abitudine di appoggiare tutto ovunque, vuotandosi le tasche, quasi ad occupare con gli oggetti di sua proprietà uno spazio che altrimenti lasciava sempre agli altri, timoroso di disturbare. Al bar, l’avrò dimenticato al bar. Provò a cercare nella rubrica vicino al telefono il numero del locale dove andava a mangiare. C’era stato il giorno prima, l’ultimo giorno di lavoro. Ma al bar non c’era traccia del portafoglio e in ufficio, l’anziana assistente del direttore, dopo una lunga attesa replicò desolata che non c’era nulla. Che avrebbero cercato ancora e chiesto a quelli delle pulizie ma che sicuramente l’esito sarebbe stato negativo e si raccomandò di andare subito a fare una denuncia in questura.
Tornò invece in metropolitana, come un animale in cerca di una preda, lasciandosi alle spalle il disordine minaccioso delle stanze. Ai tornelli per la timbratura dei biglietti per la prima volta passò spedito davanti ai controllori senza timbrare il biglietto con la frettolosa sicurezza dei possessori di tessere di abbonamento, senza esibire alcunché. Scese precipitosamente le scale e aspettò il treno. Scalpicciò fuori dalle porte, alla prima fermata e ne prese un altro e ridiscese e avanti, su quello successivo. Continuò a vagare sui treni per tutto il pomeriggio, osservando la gente senza fretta, pervaso da una piacevole sensazione di pace. Non aveva mangiato nulla e aveva sete ma la languida certezza di non avere alcuna scadenza o termine da rispettare lo rendeva appagato e sonnolento. Avrebbe potuto restare la sotto fino alla fine del servizio, cullato dal rullio sordo del treno. A un certo punto salirono un gruppo di uomini vestiti di impeccabili abiti scuri e cravatta. Li riconobbe in ritardo mentre si avvicinavano festanti verso di lui. Erano colleghi, appena usciti dall’ufficio e avevano una gran voglia di chiacchierare.
“ Ottiero, questo è l’orario dei condannati al lavoro, che ci fai da queste parti.”disse uno. “ Eh non ce la conta giusto il dritto, fece un altro.” “ Questo ce la mette nel c… a tutti” disse un terzo. E ancora il primo “Dai, ce lo puoi dire, tanto noi miseri tapini moriremo in azienda, hai avuto qualche abboccamento oggi pomeriggio…” “Si, fece di nuovo il secondo, “ questo ce lo ritroviamo direttore generale…”
Ottiero guardava frastornato il branco dei colleghi stuzzicarlo, sostituire i motteggi, con frasi di sfottò, lanciate tra loro medesimi e dimenticarsi di sentire la sua risposta. Non gli risultava lo avessero mai stimato in ufficio. Anzi sapeva che, al contrario, si divertivano a dirsi, nei bagni, durante rapide riunioni davanti alle latrine che non aveva le palle. Facevano boccucce a cuore, imitandolo, distorcendo la sua gentilezza, storpiandola fino a farla diventare una parodia, come se fosse una femminuccia che non tira fuori gli zebedei, al momento giusto. Li aveva sentiti e visti da uno dei bagni dove si era chiuso di nascosto, mentre cercava un momento di solitudine, lontano dagli uffici open space. Sapeva che facevano scommesse che non ce l’avrebbe fatta. Troppo debole, nessuna grinta. Non avrebbe fatto carriera .
Così sorrise, esibendo una espressione talmente fredda e distante, quasi gli si fossero paralizzati i muscoli facciali, da assomigliare ad una scimmia digrignante. E poi si sentì chiedere “ avete visto per caso un gruppo di ragazzi rom che suonano con l’amplificatore, sono in cinque, di cui uno basso, il più giovane, credo?”
In quel momento, il treno, giunto alla fermata spalancò le porte e dalla banchina si sentì provenire una musica forte. Ottiero si catapultò fuori come se avesse avuto una molla dietro la schiena, gli sguardi meravigliati dei colleghi, rimasti con gesti a mezz’aria, nel tentativo di continuare la conversazione. E vide la banda dei ragazzi entrare due carrozze più avanti. Corse a perdifiato e riuscì a saltare sul treno proprio per un soffio. La musica aveva già foderato completamente l’abitacolo. Non li vide subito, mescolati tra la folla ma, dopo pochi secondi intravide il ragazzo con l’amplificatore. Si fece strada tra le persone, appendendosi ai corrimani e ai sostegni, come se dovesse superare un percorso di guerra. Il ragazzo più basso stava già preparando il bicchiere di carta per la questua e Ottiero gli si mise davanti. Gli disse piano, restituiscimi il portafoglio, me l’avete preso. Il ragazzo fece finta di non capire. Ottiero disse ancora,
- Ridammi il mio portafoglio ridammelo.
- Non ce l’ho, non sono stato io
- Ridammelo
Gli altri ragazzi smisero di suonare e si avvicinarono con aria tutt’altro che amichevole. Il più alto aveva un sorriso sfrontato brillante di denti d’oro.
- Siete dei ladri, usate la musica per rubare. Ladri.
- Non siamo ladri. rispose il ragazzo con l’amplificatore.
- Ladri.
- Tu sei matto, noi non rubiamo nulla. Aggiunse uno dei violinisti, impugnando
l’archetto come un’arma.
C’era un silenzio denso, fitto, sovrastato dai cigolii della carrozza che continuava a scodinzolare sui binari. Le teste dei passeggeri, in quel momento erano tutte chinate sui giornali o girate dalla parte opposta ma tutti, nonostante l’apparenza, ascoltavano con grande attenzione.
- Matto tu sei matto disse ancora il ragazzo con l’amplificatore, facendo il gesto di spingere Ottiero con la mano.
- Lui è malato e vecchio – disse precipitosamente il ragazzo basso prendendo per
Il gomito l’altro, come si farebbe con un fratello maggiore, per impedirgli di commettere un errore.
- Io non ho tuo portafoglio. Ma ho visto, è in cestino della prossima stazione a destra vicino alla scala, in fondo a destra.
- Adesso scendi con me e mi fai vedere dove .
Ottiero cercò di prendere per le spalle il ragazzo basso ma lui, veloce sgusciò al volo fuori dal treno appena giunto alla stazione . E Ottiero dietro di loro.
Nessuno dei presenti si mosse. Ormai tutti fissavano la scena apertamente, senza imbarazzo e pudore, immobili, come se avessero assistito ad uno spettacolo.
- Vai da medico tu sei malato gli urlò il ragazzo basso, mentre correva insieme agli altri verso l’uscita.

Il portafoglio era li, nel cestino vicino alla scala a destra, proprio accanto all’uscita. Esattamente dove aveva detto il ragazzo basso. C’era tutto, mancavano solo i soldi. Lo tenne in mano, lo strinse tra le nocche bluastre e improvvisamente cominciò a scivolare a terra come se si trovasse in un mare di sapone.
L’ultima cosa che pensò fu sto cadendo, sto cadendo ..come in un sogno, non mi sento più le gambe.


Ottiero aprì gli occhi con il faccione della infermiera che gli fluttuava davanti, indaffarata coi i tubi e i fili e i monitor a cui era collegato.
- Ben svegliato.
Provò a chiedere qualcosa ma la gola gli doleva terribilmente.
- Buono, buono, non può parlare è stato male, adesso viene il medico e le spiega tutto.
Tentò di allungarsi e prendere la mano dell’infermiera ma un’altra fitta gli arrivò come una frustata alle mani.
- Sig Ottieni, ha le flebo, faccia il bravo, tranquillo, che va tutto bene, eh.
Il medico era sopraggiunto e lo guardava con un viso franco che emanava un ché di bonario e pulito.
- Allora come si sente.. muova solo la testa, tutto bene?
Ottiero roteò la testa e la stanza comincò a girare.
- Il ra..azo del metrò, mi ha ruba.. .. si sforzò Ottiero,ottenendo di emettere solo dei rantoli soffiati incomprensibili.
- Buono, buono, che per il momento è meglio che non parli. Abbiamo dovuto operarla. Ha avuto un infarto Signor Ottieni ma, adesso è fuori pericolo. Riposi, adesso, riposi. Abbiamo cercato di contattare i suoi familiari ma non abbiamo trovato nessun numero. Desidera che telefoniamo a qualcuno eh …
- Prendo nota del numero, come facciamo dottore – disse l’infermiera.
- Eh adesso vediamo..
- Mia moglie – raschiò con tutte le sue forze Ottiero, stupendosi di quei suoni rauchi aspirati.




Sofia ricevette la telefonata sul cellulare di domenica alle dieci del mattino , tre giorni dopo il divorzio. Stava bevendo il caffè nella grande cucina bianca di Bice.
- E’ l’ospedale, per Ottiero, devo andare subito
- Ma cos’è questa storia, cos’è successo..
- Non lo so devo andare..
- Ottiero riesce sempre a rovinarti tutto.
- Stupida, non .. Sei ingiusta,..cosa c’entra adesso..
- E’ sempre stato un debole..lo dicevo che la giornata andava storta..
Tutte due pensarono la stessa cosa. Bice aveva letto le carte la sera precedente.
Un fante di picche. Impedimenti, cattive notizie. Sofia aveva cominciato a scherzare, a prendere in giro Bice, fissata con le carte.
- Mi sa che domani ..qualcosa andrà storto, aveva detto mentre preparava la borsa per il mare . Quel fante di picche..
Sofia entrò nella camera a due letti dell’ospedale, subito dopo aver parlato con il medio.
- Ciao…
- Sofia
- No non parlare Ottiero. Sei stato operato, qualcosa al miocardio, e in più c’era l’infarto. Ma tu lo sapevi di essere malato? Il medico mi ha detto che non puoi non avere avuto disturbi.. Lo sapevi Ottiero
- No, Si..
- Perché non me lo hai detto..
- Non lo so.. - Gli sembrava di gracidare come una rana.- Il ragazzo del metrò, mi hanno rubato il portafogli.. e poi ..
- Quale ragazzo del metrò..
Sofia gli mise una mano morbida sul viso, come se volesse racchiuderlo, fresca,
un fiore concavo che gli toglieva il dolore. E lo guardò timida, con una occhiata di tenera tristezza. Lui rispose con uno sguardo umido, grato, gli occhi pieni di speranza.
- Dai che appena ti rimetti, leviamo le tende e andiamo al mare…

Ottiero sognò il ragazzo basso del metrò. Suonava in un grande circo, insieme agli altri. Tutti vestiti di strani costumi da ussari. Il circo continuava a ingrandirsi, come se si dilatasse. C’erano saltimbanchi, cavalli, acrobati che ballavano intrecciandosi gli uni con gli altr.A un certo punto era arrivato anche il coro dell’armata rossa. Ottiero era a in prima fila ad applaudire e accompagnare il ritmo della musica. Il ragazzo danzava, volteggiando su se stesso, facendo ruotare un mantello rosso damasco brillante, poi si girò, sorrise a Ottiero, fermandosi a guardarlo intensamente e sparì tra la folla che ondeggiava.